La TRAMA
Scritto su minuscoli fogli raccolti in taccuini, nascosti conservati e difesi a dispetto di tutto, il Diario di prigionia di Umberto Saraceni è la cronaca fedele, spesso giornaliera, di una detenzione ingiusta e inumana durata quasi due anni nei campi in cui i tedeschi raccolsero centinaia di migliaia di soldati ed ufficiali italiani dopo l’otto settembre del 1943.
Ed è il tema della giustizia che traspare in controluce in tutte le pagine dell’autore, magistrato militare, impegnato da prigioniero a far rispettare le leggi italiane all’interno dei campi e vittima di un sopruso e di un sofisma giuridico (quello degli italiani non prigionieri di guerra ma semplici internati) che ripugnava alla sua coscienza e di cui solo il carattere sociale e collettivo, cioè il fatto di riguardare un intero popolo in armi, che si era battuto con onore pur nella povertà dei mezzi, ne faceva accettare con coraggio e tenacia le tremende conseguenze.
La scabra e quasi parossistica serie di annotazioni, che giorno dopo giorno si concentrano sempre di più sulle pure questioni di sopravvivenza fisica (la mancanza di cibo, il freddo, le malattie) dà attestazione di una eroica resistenza individuale diventa progressivamente l’omaggio per nulla retorico rivolto alle migliaia di compagni che seppero tener testa alle pressioni crescenti dei tedeschi prima per aderire alla Repubblica Sociale Italiana e poi per contribuire allo sforzo bellico con il lavoro volontario.
Se il Diario è il resoconto di una resistenza spinta sino alle estreme conseguenze (furono decine di migliaia i morti di fame e di stenti) esso testimonia anche, sin dall’inizio, di una vicenda di solidarietà e una storia d’amore che hanno consentito all’autore, nei momenti più bui, di mantenere fede negli uomini e nel futuro: e agli ex alleati divenuti feroci aguzzini si contrappongono così, solleciti e solidali, gli ex nemici.
L’autore non ha mai voluto integrare il testo originario, che era scritto tenendo conto della concreta possibilità che cadesse in mano alla Gestapo: episodi importanti di quella storia, raccontati poi a voce (tra tutti quello, straordinario, delle radio del campo) dunque mancano, perché avrebbero compromesso i compagni o iniziative in corso di svolgimento.
Restano le asciutte descrizioni delle condizioni di vita, la nostalgia dell’Italia e soprattutto della sua Orvieto, l’amore per la giovanissima donna che sarebbe divenuta sua moglie, l’affetto per la Grecia da cui in un dolce autunno era partito, infine le poesie.
Umberto Saraceni è nato ad Orvieto il 27 giugno 1911, figlio di Luigi, un avvocato che con il grado di capitano morì sul Podgora durante un’azione per cui ricevette la medaglia d’argento al valor militare. Seguendo le orme del padre si guadagnò da vivere come cancelliere laureandosi in giurisprudenza.
Allo scoppio della guerra venne richiamato come ufficiale dei Carabinieri e prestò servizio in Albania sulla frontiera con la Grecia. Entrò successivamente nel Corpo della Giustizia Militare, venendo assegnato, dopo una breve permanenza a Verona, alla Sezione di Agrinion del Tribunale di Guerra di Atene. Ad Agrinion lo colse l’annuncio dell’armistizio, e da lì iniziò il lungo percorso come prigioniero attraverso buona parte dell’Europa. Tornato dopo quasi due anni in Italia continuò la carriera di magistrato militare presso il Tribunale di Roma, partecipando ad importanti processi, tra cui quello al Maresciallo Graziani. Nel 1960 venne nominato Procuratore Militare, con il grado di Generale, presso il Tribunale di La Spezia, che aveva una estesissima giurisdizione comprendendo larga parte dell’Italia centrale. Fu professore di diritto all’Accademia Navale di Livorno e ispiratore della legge sull’obiezione di coscienza. Terminata la carriera con il grado di Procuratore generale si ritirò ad Orvieto.
È autore di un poema in terzine dantesche, scritto in prigionia e pubblicato nel 1997.
Mantenne vivissimo per tutta la vita l’amore per la Grecia, in cui soleva passare ogni anno lunghi mesi con sua moglie, la Iulica di questo suo racconto.
Ed è il tema della giustizia che traspare in controluce in tutte le pagine dell’autore, magistrato militare, impegnato da prigioniero a far rispettare le leggi italiane all’interno dei campi e vittima di un sopruso e di un sofisma giuridico (quello degli italiani non prigionieri di guerra ma semplici internati) che ripugnava alla sua coscienza e di cui solo il carattere sociale e collettivo, cioè il fatto di riguardare un intero popolo in armi, che si era battuto con onore pur nella povertà dei mezzi, ne faceva accettare con coraggio e tenacia le tremende conseguenze.
La scabra e quasi parossistica serie di annotazioni, che giorno dopo giorno si concentrano sempre di più sulle pure questioni di sopravvivenza fisica (la mancanza di cibo, il freddo, le malattie) dà attestazione di una eroica resistenza individuale diventa progressivamente l’omaggio per nulla retorico rivolto alle migliaia di compagni che seppero tener testa alle pressioni crescenti dei tedeschi prima per aderire alla Repubblica Sociale Italiana e poi per contribuire allo sforzo bellico con il lavoro volontario.
Se il Diario è il resoconto di una resistenza spinta sino alle estreme conseguenze (furono decine di migliaia i morti di fame e di stenti) esso testimonia anche, sin dall’inizio, di una vicenda di solidarietà e una storia d’amore che hanno consentito all’autore, nei momenti più bui, di mantenere fede negli uomini e nel futuro: e agli ex alleati divenuti feroci aguzzini si contrappongono così, solleciti e solidali, gli ex nemici.
L’autore non ha mai voluto integrare il testo originario, che era scritto tenendo conto della concreta possibilità che cadesse in mano alla Gestapo: episodi importanti di quella storia, raccontati poi a voce (tra tutti quello, straordinario, delle radio del campo) dunque mancano, perché avrebbero compromesso i compagni o iniziative in corso di svolgimento.
Restano le asciutte descrizioni delle condizioni di vita, la nostalgia dell’Italia e soprattutto della sua Orvieto, l’amore per la giovanissima donna che sarebbe divenuta sua moglie, l’affetto per la Grecia da cui in un dolce autunno era partito, infine le poesie.
Umberto Saraceni è nato ad Orvieto il 27 giugno 1911, figlio di Luigi, un avvocato che con il grado di capitano morì sul Podgora durante un’azione per cui ricevette la medaglia d’argento al valor militare. Seguendo le orme del padre si guadagnò da vivere come cancelliere laureandosi in giurisprudenza.
Allo scoppio della guerra venne richiamato come ufficiale dei Carabinieri e prestò servizio in Albania sulla frontiera con la Grecia. Entrò successivamente nel Corpo della Giustizia Militare, venendo assegnato, dopo una breve permanenza a Verona, alla Sezione di Agrinion del Tribunale di Guerra di Atene. Ad Agrinion lo colse l’annuncio dell’armistizio, e da lì iniziò il lungo percorso come prigioniero attraverso buona parte dell’Europa. Tornato dopo quasi due anni in Italia continuò la carriera di magistrato militare presso il Tribunale di Roma, partecipando ad importanti processi, tra cui quello al Maresciallo Graziani. Nel 1960 venne nominato Procuratore Militare, con il grado di Generale, presso il Tribunale di La Spezia, che aveva una estesissima giurisdizione comprendendo larga parte dell’Italia centrale. Fu professore di diritto all’Accademia Navale di Livorno e ispiratore della legge sull’obiezione di coscienza. Terminata la carriera con il grado di Procuratore generale si ritirò ad Orvieto.
È autore di un poema in terzine dantesche, scritto in prigionia e pubblicato nel 1997.
Mantenne vivissimo per tutta la vita l’amore per la Grecia, in cui soleva passare ogni anno lunghi mesi con sua moglie, la Iulica di questo suo racconto.
Caratteristiche TECNICHE
ISBN: | 978-88-7381-962-2 |
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Illustrazioni: | B/N |
Data di uscita: | Gennaio 2018 |
Formato: | 14 x 21 cm |
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Pagine: | 344 + Copertina in brossura |
Lingua: | Italiano |